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La piena ed effettiva tutela del diritto fondamentale alla salute richiede che l'organizzazione delle aziende e degli enti del Servizio sanitario nazionale sia disciplinata secondo criteri di trasparenza ed efficienza, che assicurino la piena indipendenza degli organi di vertice di aziende ed enti rispetto all'autorità politica, assieme alla loro qualità e competenza. Al tempo stesso, le scelte relative alla selezione degli organi di vertice – direttori generali, direttori amministrativi, direttori sanitari – devono mantenere, pur nella garanzia della necessaria indipendenza dall'autorità politica, un legame con la comunità territoriale in cui ha sede l'azienda o l'ente del Servizio sanitario nazionale per cui si procede. Le aspettative dei cittadini rispetto alla qualità dei servizi erogati dal Servizio sanitario nazionale sono infatti molto cresciute in questi anni e il sistema stenta non di rado a soddisfarle. I cittadini richiedono sicurezza, tempestività, efficacia, personalizzazione sempre maggiori, ovvero maggiore qualità delle cure.
La disciplina dei procedimenti di nomina degli organi direttivi di aziende ed enti del Servizio sanitario nazionale è, in questo quadro, uno snodo essenziale per la garanzia della piena funzionalità del sistema e dunque, in ultima analisi, della stessa qualità delle cure. Garantire la qualità delle cure significa infatti assicurare la qualità di tutte le componenti del Servizio sanitario nazionale: ciò vale evidentemente per gli operatori, le strutture e l'organizzazione che governa i processi di erogazione, ma anche per i procedimenti e i criteri che governano la scelta degli organi direttivi e di vertice.
La disciplina di tali procedimenti e criteri è stata oggetto di un significativo intervento di riforma ad opera del decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171, adottato in attuazione della delega di cui all'articolo 11, comma 1, lettera p), della legge 7 agosto 2015, n. 124. Tale disposizione, inserita nel quadro di un più generale intervento di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, prevedeva una riforma delle modalità di nomina dei direttori generali, dei direttori amministrativi e dei direttori sanitari, operante nel senso di ridurre e vincolare il margine di discrezionalità riconosciuto fino a quel momento alle regioni nella scelta dei soggetti da nominare. Il nuovo sistema, cui ha dato fisionomia definitiva il richiamato decreto legislativo n. 171 del 2016, prevede, anzitutto, l'istituzione di elenchi – nazionali per i direttori generali e regionali per le altre figure apicali – di soggetti in possesso dei requisiti per la nomina. Tali requisiti attengono, per un verso, al possesso di specifici titoli formativi e professionali e, per altro verso, al possesso di comprovata esperienza dirigenziale. La formazione dell'elenco nazionale è demandata a una apposita commissione istituita presso il Ministero della salute mentre alla formazione degli elenchi regionali provvedono le regioni.
Su questa base, il decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171, ha disciplinato il procedimento di nomina dei direttori generali, dei direttori sanitari e dei direttori amministrativi di aziende ed enti del Servizio sanitario nazionale prevedendo che a tali elenchi si debba attingere, necessariamente, per la nomina degli organi apicali. In particolare, per i direttori generali l'articolo 2 del richiamato decreto legislativo prevede che la nomina – affidata alla regione – avvenga sulla base della proposta di una « rosa » di candidati selezionati, tra gli iscritti all'elenco nazionale, da una commissione all'uopo nominata dalla regione stessa secondo criteri da essa stessa stabiliti e composta da esperti, indicati da qualificate istituzioni scientifiche indipendenti che non si trovino in situazioni di conflitto d'interessi, di cui uno designato dall'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali e uno dalla regione. Per i direttori sanitari e amministrativi, nonché per i direttori dei servizi socio-sanitari (ove tale figura sia prevista dalla legge regionale), il potere di nomina è invece affidato al direttore generale, sulla base delle valutazioni svolte – per titoli e colloquio – da una commissione regionale appositamente costituita sui candidati, che devono in ogni caso essere iscritti in elenchi regionali appositamente costituiti.
La riforma del 2016 ha dunque ridotto significativamente il margine di discrezionalità dell'ente politico nella scelta dei soggetti da nominare ma non ha sciolto del tutto il nodo della piena indipendenza dell'organo apicale rispetto all'autorità politica.
Il presente disegno di legge intende pertanto colmare tale lacuna, con un intervento che si muove lungo due direttrici fondamentali.
In primo luogo, pur mantenendo il potere di nomina dei direttori generali in capo all'autorità politica, il disegno di legge intende rafforzare i limiti alla discrezionalità di quest'ultima prevedendo – per un verso – che la commissione valutatrice sia nominata dall'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) e, per altro verso, che detta commissione non si limiti a formare una rosa di candidati bensì selezioni il candidato che presenta requisiti maggiormente coerenti con le caratteristiche dell'incarico da attribuire e lo proponga per la nomina al Presidente della regione, che può rifiutarsi solo per motivate e comprovate ragioni derivanti dall'esistenza di un conflitto di interessi. Per la commissione nominata dall'ANAC si prevedono peraltro specifici criteri di composizione e, in particolare, la presenza di rappresentanti di medici, operatori sanitari e pazienti, nonché del sindaco del luogo in cui l'azienda o l'ente sanitario per cui si procede ha sede (o di un suo delegato). In tal modo, si assicura che la nomina avvenga sulla base di criteri di competenza e trasparenza, ma anche avuto riguardo alle specifiche esigenze di medici e operatori sanitari, dei pazienti e del territorio. L'obiettivo che si persegue è dunque quello di conciliare l'indipendenza del procedimento di nomina da criteri strettamente politici con l'altrettanto necessaria esigenza di assicurare un nesso tra la nomina e le specifiche esigenze della comunità di riferimento, secondo una logica di equilibrio ispirata alla presenza di adeguati controlli e contrappesi.
A ciò si aggiunga che si prevede che la commissione valutatrice resti in carica per l'intera durata dell'incarico per cui si procede, di modo da poterla coinvolgere – mediante l'espressione di pareri vincolanti o semi-vincolanti – anche nelle fasi di conferma dell'incarico (dopo i primi ventiquattro mesi) e di eventuale revoca del medesimo, nonché di nomina di eventuale commissario.
In secondo luogo, e nella stessa prospettiva, si interviene sul procedimento di nomina – da parte del direttore generale – del direttore sanitario, del direttore amministrativo e del direttore dei servizi socio-sanitari (ove tale figura sia prevista dalla legge regionale) modificando l'attuale disciplina, sostituendo agli elenchi regionali, attualmente previsti dall'articolo 3 del decreto legislativo n. 171 del 2016, appositi elenchi nazionali, formati secondo le modalità previste dall'articolo 1 del medesimo decreto legislativo per l'elenco nazionale dei soggetti idonei all'assunzione dell'incarico di direttore generale.
Il disegno di legge si compone di due articoli, il primo dei quali reca modifiche puntuali agli articoli 2 e 3 del decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171.
In particolare, l'articolo 1, lettera a), modifica l'articolo 2 del decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171.
Il numero 1) sostituisce il comma 1 dell'articolo 2, confermando – al comma 1 – che la nomina resti affidata alla regione e che debba avvenire sulla base dell'elenco nazionale di cui all'articolo 1, introducendo inoltre un comma 1-bis che: 1) affida la valutazione per titoli e colloquio ad apposita commissione nominata dall'Autorità nazionale anticorruzione, di cui all'articolo 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190, e composta da esperti, indicati da qualificate istituzioni scientifiche indipendenti che non si trovino in situazioni di conflitto d'interessi, di cui uno designato dall'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali e uno dalla regione; tale commissione deve necessariamente comprendere almeno un rappresentante dei medici e un rappresentante degli operatori sanitari dell'ente per cui si procede, nonché un componente designato dalle associazioni di pazienti operanti nel medesimo ente e il sindaco del comune in cui ha sede l'ente in relazione al quale si procede o un suo delegato; 2) prevede che la commissione, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, selezioni entro sessanta giorni dalla nomina il candidato che presenta requisiti maggiormente coerenti con le caratteristiche dell'incarico da attribuire e lo propone per la nomina al Presidente della regione, che può rifiutarsi solo per motivate e comprovate ragioni derivanti dall'esistenza di un conflitto di interessi; 3) dispone che la commissione resti in carica per l'intera durata dell'incarico in relazione al quale è stata nominata; 4) conferma che non possono essere proposti per la nomina coloro che abbiano ricoperto l'incarico di direttore generale, per due volte consecutive, presso la medesima azienda sanitaria locale, la medesima azienda ospedaliera o il medesimo ente del Servizio sanitario nazionale ed estende tale causa di incompatibilità a coloro che abbiano ricoperto lo stesso incarico in altra azienda o ente avente sede nella medesima regione. Viene inoltre inserito un comma 1-ter, il quale prevede che – entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge – l'Autorità nazionale anticorruzione disciplini con proprio regolamento i criteri di nomina della commissione di cui al comma 1-bis. Il regolamento dovrà indicare il numero minimo e massimo di componenti della commissione, in base al numero di manifestazioni di interesse ricevute, garantendo in ogni caso la presenza di un componente per ciascuna della categorie indicate al comma 1-bis, e dovrà altresì disciplinare le modalità di formazione di un elenco di esperti, tenuto presso l'Autorità e aggiornato ogni tre anni, tra i quali selezionare i membri delle commissioni di valutazione, individuando le qualificate istituzioni scientifiche indipendenti tra Università ed enti di ricerca pubblici o privati e definendo i requisiti minimi per l'inserimento nell'elenco. Il regolamento dovrà infine disciplinare le modalità attraverso cui selezionare i componenti in rappresentanza dei medici, degli operatori sanitari e delle associazioni di pazienti maggiormente rappresentative.
Il numero 2) della lettera a) dell'articolo 1 modifica l'articolo 2, comma 2, eliminando – per coordinamento – i riferimenti alla rosa di candidati (non più prevista) in sede di disciplina della eventuale nuova nomina, così prevedendo che – in caso di cessazione anticipata dell'incarico di direttore generale – la nuova nomina debba avvenire seguendo la procedura ordinaria di cui al comma 1 e prevedendo altresì che, ove si decida di procedere alla nomina di un commissario, lo stesso debba essere proposto dalla commissione valutatrice di cui al comma 1-bis.
Il numero 3) della lettera a) dell'articolo 1 modifica l'articolo 1, comma 4, prevedendo il coinvolgimento della commissione valutatrice di cui al comma 1-bis nel procedimento di conferma del direttore generale dopo i primi ventiquattro mesi. Per effetto della modifica introdotta, si prevede che la relazione di verifica dei risultati aziendali conseguiti e del raggiungimento degli obiettivi di cui ai commi 2 e 3 – elaborata dalla regione sentito il parere del sindaco, della Conferenza dei sindaci ovvero, per le aziende ospedaliere, della Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale – venga trasmessa alla commissione di cui al comma 1-bis che, entro quindici giorni, rende parere motivato. In caso di esito negativo la regione dichiara, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, la decadenza immediata dall'incarico con risoluzione del relativo contratto mentre, in caso di valutazione positiva, la regione procede alla conferma con provvedimento motivato. Si prevede altresì che la relazione biennale sulle attività di valutazione dei direttori generali e sui relativi esiti venga trasmessa anche all'Autorità nazionale anticorruzione.
Il numero 4) della lettera a) dell'articolo 1, infine, modifica l'articolo 1, comma 5, prevedendo il coinvolgimento nel procedimento di revoca dell'incarico per gravi inadempienze – oltre che, come già previsto, della Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale – della commissione di cui al comma 1-bis. Si prevede, in particolare, che debba essere acquisito anche il parere della commissione valutatrice e che, in caso di parere negativo, la regione debba effettuare una nuova valutazione in contraddittorio con l'interessato e, all'esito, ove intenda discostarsi dai pareri, debba darne esplicita motivazione.
L'articolo 1, lettera b), modifica l'articolo 3 del decreto legislativo n. 171 del 2016, intervenendo sul procedimento di nomina, da parte del direttore generale, del direttore amministrativo, del direttore sanitario e, ove previsto dalle leggi regionali, del direttore dei servizi socio-sanitari. Si prevede in particolare, attraverso l'introduzione di un comma 2, l'istituzione di appositi elenchi nazionali dei soggetti idonei alla nomina di direttore amministrativo, direttore sanitario e, ove previsto dalle leggi regionali, di direttore dei servizi socio-sanitari delle aziende sanitarie locali, delle aziende ospedaliere e degli altri enti del Servizio sanitario nazionale, alla formazione dei quali provvede la medesima commissione che – ai sensi dell'articolo 1, comma 3, del decreto legislativo n. 171 del 2016 e con le procedure previste dal comma 4 del medesimo articolo – forma l'elenco nazionale dei soggetti idonei a ricoprire l'incarico di direttore generale.
L'articolo 2 reca la clausola di invarianza finanziaria.
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Negli ultimi anni è maturata con sempre maggiore intensità la consapevolezza dell'importanza di assicurare – nel più ampio contesto dei processi di transizione digitale in atto – strumenti didattici e ambienti di apprendimento che, attraverso l'utilizzo di tecnologie innovative, consentano di assicurare e promuovere la formazione delle studentesse e degli studenti nelle discipline scientifiche, tecniche e matematiche (STEM).
Dapprima la legge 13 luglio 2015, n. 107, ha avviato il processo di digitalizzazione del sistema scolastico, introducendo e disciplinando – all'articolo 1, commi 56 a 62 – il Piano nazionale per la scuola digitale la cui attuazione, negli ultimi anni, ha contribuito a un sensibile miglioramento dei processi di innovazione.
Tali processi hanno avuto nuovo impulso, come noto, nel quadro dell'attuazione del programma di investimenti Next Generation EU e, dunque, con l'adozione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. In particolare, l'articolo 24 del decreto legislativo 6 novembre 2021, n. 152 ha finanziato – nell'ambito della Missione 2 – Componente 3 – Investimento 1.1. del Piano nazionale di ripresa e resilienza – un concorso per la progettazione di scuole innovative dal punto di vista architettonico e strutturale, altamente sostenibili e con la massima efficienza energetica, inclusive e in grado di garantire una didattica basata su metodologie innovative e una piena fruibilità degli ambienti didattici, anche attraverso un potenziamento delle infrastrutture per lo sport.
Risulta ad oggi ancora carente, tuttavia, la presenza di spazi fisici e digitali per lo studio delle discipline STEM riconoscibili sul territorio e aperti ad esso.
Il progetto « Eureteka » mira a colmare questo divario, e il presente disegno di legge intende contribuire a tale obiettivo rendendo strutturale – e non soltanto contingente o sperimentale – la realizzazione su tutto il territorio nazionale di spazi come le Eureteke, in cui gli studenti e le studentesse possano fare esperienze stimolanti in ambito STEM, per far emergere ed esplorare passioni e aspirazioni (a volte condizionate dal rendimento scolastico, da stereotipi, da esperienze pregresse) nella logica di un orientamento di tipo formativo e non solo informativo.
In questa prospettiva le Eureteke possono così rappresentare non soltanto luoghi di formazione in senso stretto, ma anche ambienti finalizzati all'orientamento agli studi universitari, stimolando l'avvicinamento alle materie STEM, in particolare per le bambine e le ragazze. In questo ambito, infatti, si registra ancora una forte influenza di stereotipi di genere, che limitano l'accesso di bambine e ragazze a queste discipline. Sempre nell'ottica di promuovere l'orientamento secondo modalità innovative, le specifiche caratteristiche delle Eureteke potranno favorire lo sviluppo di pratiche di collaborazione in sinergia con enti locali, università e istituzioni di ricerca presenti nel territorio di riferimento, ma anche con enti del terzo settore.
Pertanto, ferma restando la loro destinazione prevalente ad attività di tipo didattico, le Eureteke possono rappresentare fondamentali snodi di collegamento tra gli istituti scolastici e le comunità territoriali, contribuendo così a valorizzare la funzione della scuola come presidio civico e luogo in cui costruire percorsi di coesione sociale.
Il disegno di legge si compone di tre articoli.
L'articolo 1 prevede che la costruzione delle Eureteke sia finanziata, con cadenza annuale, nell'ambito del Piano nazionale per la scuola digitale, con riferimento in particolare alla Azione #4 – Ambienti per la didattica digitale integrata e all'Azione #7 – Piano per l'apprendimento pratico. L'articolo definisce inoltre le Eureteke quali ambienti di apprendimento innovativi dal punto di vista architettonico e strutturale, altamente sostenibili e con il massimo dell'efficienza energetica, inclusivi e in grado di garantire metodologie innovative nonché modulari, flessibili e reversibili, destinati a sviluppare e condividere modelli didattici innovativi con l'obiettivo di rinnovare le competenze nelle discipline scientifico-tecnologiche (STEM) nelle scuole secondarie e di primo grado.
L'articolo 2 demanda a successivo decreto del Ministro dell'istruzione e del merito – da adottarsi entro novanta giorni dall'entrata in vigore della legge, sentita la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 – la disciplina delle modalità di realizzazione delle Eureteke e dei criteri di selezione dei progetti. Si prevede che, nel decreto, si assicuri che la selezione avvenga mediante procedura ad evidenza pubblica e che vengano rispettate alcune essenziali caratteristiche delle Eureteke e cioè, in particolare che i progetti riguardino la realizzazione di ambienti di apprendimento concepiti come moduli autoportanti, indipendenti, costruiti con materiali riciclati o riciclabili e pienamente accessibili per le persone con disabilità; che le Eureteke possano essere collocate sia all'interno delle scuole che in luoghi aperti e pubblici e che, in ogni caso, ferma restando la destinazione prevalente alle attività didattiche, vengano assicurate opportune modalità di fruizione dell'Eureteka per la comunità territoriale di riferimento; che gli ambienti di apprendimento prevedano modalità di apprendimento e relazione sia fisica che virtuale, ivi compresa la possibilità di avvalersi di risorse disponibili in modo permanente su spazi di archiviazione virtuale (cloud) e di avatar robotici che consentano la telepresenza e l'esplorazione da remoto dell'ambiente di apprendimento; che sia assicurata la diffusione delle Eureteke su tutto il territorio nazionale anche, dopo la realizzazione delle prime Eureteke, destinando quote di finanziamento a territori che siano sprovvisti o provvisti in modo insufficiente di Eureteke; che, infine, sia prevista la possibilità di presentare progetti al cui finanziamento concorrano regioni ed enti locali. Il comma 2 prevede che l'avviso pubblico rivolto al finanziamento di progetti di realizzazione delle Eureteke venga adottato dal Ministro con cadenza annuale.
L'articolo 3 reca la copertura finanziaria, a valere sulla quota parte destinata al Piano nazionale per la scuola digitale del Fondo per il funzionamento delle istituzioni scolastiche, di cui all'articolo 1, comma 62, della legge 13 luglio 2015, n. 107, la cui dotazione è – a tal fine – incrementata di 20 milioni di euro annui a decorrere dal 2023.
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Il presente disegno di legge riprende sostanzialmente il testo dell'atto senato n. 299, a prima firma della senatrice Boldrini, presentato nella XVIII legislatura e adottato come testo base dalla Commissione sanità del Senato.
La sindrome fibromialgica, malattia neurologica riconosciuta dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dal 1992 con la cosiddetta Dichiarazione di Copenhagen e inclusa nella decima revisione dell'International statistical classification of diseases and related health problems (ICD-10, codice M79-7), colpisce in Italia, secondo lo studio Prevalence of fibromyalgia: a survey in five european countries, circa 2-3 milioni di persone, corrispondenti al 3-4 per cento dell'intera popolazione; sei volte su sette la patologia riguarda donne in età giovanile.
La fibromialgia è una sindrome dolorosa cronica da sensibilizzazione centrale caratterizzata dalla disfunzione dei circuiti neurologici preposti all'elaborazione degli impulsi provenienti dalle afferenze del dolore (nocicettive) dalla periferia al cervello.
La predetta patologia si manifesta, secondo i principali criteri diagnostici, con dolore muscolo-scheletrico diffuso e con la presenza di specifiche aree dolorose alla digito-pressione (tender points), l'affaticamento costante, una rigidità generalizzata, un sonno non ristoratore, il mal di testa, la vescica iperattiva, la dismenorrea, l'ipersensibilità al freddo, il cosiddetto fenomeno di Raynoud, la sindrome delle gambe senza riposo, l'intorpidimento, il formicolio atipico, il prurito, la sensazione di pressione e di stringimento, l'allodinia, una scarsa resistenza all'esercizio fisico e una generale sensazione di debolezza. Sovente si manifestano anche altri sintomi come l'astenia, l'insonnia e risvegli notturni, disturbi cognitivi (confusione mentale, alterazione della memoria e della concentrazione), dolori addominali e colon irritabile (60 per cento), dispepsia, intolleranza al freddo o al caldo, secchezza delle mucose, sintomi urinari e genitali.
Anche soltanto uno di questi sintomi spesso limita fortemente la persona che ne soffre nell'eseguire attività normali e ha riflessi nell'inserimento nel mondo del lavoro, nella capacità lavorativa e nelle stesse relazioni sociali.
Lo stress, l'ansia e la depressione hanno una netta correlazione con questa patologia e molti pazienti fibromialgici presentano sintomi poliformi associabili a malattie autoimmuni come la tiroidite di Hashimoto, il lupus eritematoso sistemico, l'artrite reumatoide e la sindrome di Sjoegren e, uno su tre, positività agli anticorpi anti nucleo.
Nonostante la fibromialgia sia una condizione grave che colpisce un elevato numero di persone e pur essendo, per l'ampio spettro di sintomatologie da considerare, di interesse multidisciplinare, essa non è ancora riconosciuta come malattia invalidante a tutti gli effetti. Appare pertanto evidente l'urgenza di un approccio sistemico che consideri tale patologia nel suo insieme e non come sommatoria di tanti sintomi.
La subdola eterogeneità della fibromialgia comporta inoltre il fatto che le persone che ne sono affette non riescono a ricevere in tempi ragionevoli cure adeguate. Il mancato riconoscimento della causa del dolore e delle conseguenze che questo provoca nella persona sono i principali motivi di isolamento e sono causa di ulteriore sofferenza.
La difficoltà diagnostica dà infatti spesso il via a un percorso nosocomiale che si protrae per anni, un costoso calvario pieno di sofferenza e contraddistinto da crescente disabilità.
Anche se non esiste una cura specifica, essendo una malattia cronica la fibromialgia richiede trattamenti multidisciplinari a lungo termine, farmacologici convenzionali e non convenzionali, ossigenoterapia iperbarica e ozono terapia. Sono importanti anche approcci personalizzati per le specifiche esigenze dei pazienti: terapie antalgiche (agopuntura o criostimolazione), fitoterapiche, l'approccio nutraceutico e nutrizionistico, la ginnastica dolce, il linfodrenaggio, la fisioterapia, l'acqua antalgica e la psicoterapia.
Essendo la sua caratteristica principale il dolore, i malati di fibromialgia dovrebbero rientrare pienamente nella categoria delle persone che necessitano di terapia del dolore e dei livelli essenziali di assistenza.
Secondo il dettato dell'articolo 32 della Costituzione, « La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti(...) ». Appare pertanto di tutta evidenza l'obbligo dello Stato di riconoscere anche a chi soffre di fibromialgia le cure, le spese mediche e gli esami diagnostici necessari, così come per altre malattie invalidanti.
Sebbene di per sé la patologia de quo non abbia implicazioni dirette sull'aspettativa di vita, è indubbia la persistente limitazione che da essa deriva, nonché la necessità di interventi di attenuazione del dolore, che garantiscano almeno una parziale autonomia del paziente con possibilità reali di autosufficienza e conseguentemente un consistente miglioramento della qualità di vita.
La caratteristica dominante nella fibromialgia è il dolore: esso viene considerato cronico se ha una durata superiore a tre mesi e colpisce un europeo su cinque, con un trend purtroppo in costante crescita. Anche dal punto di vista dei costi di gestione dei pazienti, il dolore cronico è tra le forme di sofferenza a più alto costo nei Paesi industrializzati con almeno 500 milioni di giorni di lavoro persi ogni anno in Europa, corrispondenti a un costo di circa 34 miliardi di euro.
Sebbene siano passati ventisei anni dall'inserimento da parte dell'OMS della fibromialgia nel Manuale di classificazione internazionale delle malattie e benché altre organizzazioni mediche di carattere internazionale la ritengano una malattia cronica, ancora oggi non tutti i Paesi europei condividono tale posizione e, tra essi. anche l'Italia.
Il disegno di legge in oggetto muove pertanto da queste considerazioni, al fine di garantire risposte adeguate da parte delle istituzioni: occorre recepire le istanze e i bisogni di queste persone, promuovere forme di aiuto e di sostegno, prevedere che lo Stato, nelle sue articolazioni, si faccia carico di questa patologia per garantire le risposte più efficaci dal punto di vista clinico, sociale e relazionale.
Riconoscere la fibromialgia come malattia invalidante ne consentirebbe l'inserimento tra le patologie che danno diritto all'esenzione dalla partecipazione al costo per le correlate prestazioni sanitarie, stanti le condizioni di forte disagio e malessere psico-fisico che si manifestano nelle persone che ne sono affette; comporterebbe altresì l'individuazione sul territorio nazionale sia di strutture sanitarie pubbliche idonee alla diagnosi e alla riabilitazione di questa patologia, sia di centri di ricerca per lo studio di tale sindrome, al fine di garantire la formazione continua – anche alla luce delle disposizioni di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 – la diagnosi e, infine, i relativi protocolli terapeutici.
Un riconoscimento « legislativo » della predetta patologia o, almeno, l'attenzione al fenomeno, al livello regionale risulta a macchia di leopardo. In assenza dell'inserimento nel nomenclatore del Ministero della salute, la fibromialgia non è prevista come diagnosi nei tabulati di dimissione ospedaliera, con conseguente inapplicabilità di alcuna forma di esenzione alla partecipazione alla spesa.
Alcune regioni hanno approvato leggi in materia. A livello nazionale è dunque opportuno dare uniformità al sistema e seguito effettivo alle raccomandazioni dell'OMS e del Parlamento europeo, assicurare omogeneità di trattamento a tutti i soggetti affetti da questa patologia nonché superare le disomogeneità derivanti dalle differenti normative regionali relative al riconoscimento della fibromialgia come malattia invalidante.
Il presente disegno di legge si compone di dieci articoli.
In particolare, l'articolo 1 reca le finalità della legge.
L'articolo 2 prevede il riconoscimento della fibromialgia come malattia invalidante.
L'articolo 3 prevede disposizioni per l'esenzione dalla spesa sanitaria per le persone affette da tale patologia.
L'articolo 4 reca disposizioni per l'individuazione di specifiche strutture sanitarie per la cura della fibromialgia, per la predisposizione di specifici protocolli terapeutici e riabilitativi e per la rilevazione statistica dei soggetti affetti.
L'articolo 5 disciplina l'istituzione del Registro nazionale della fibromialgia.
L'articolo 6 si occupa della formazione del personale medico e paramedico.
L'articolo 7 riguarda la promozione di studi e di ricerche per identificare criteri diagnostici validati capaci di individuare la fibromialgia, in particolare le loro forme più gravi e invalidanti, terapie innovative e la loro efficacia, le prestazioni specialistiche più appropriate ed efficaci, l'impiego di farmaci per il controllo dei sintomi, il monitoraggio e la prevenzione degli eventuali aggravamenti.
L'articolo 8 prevede la definizione di accordi per favorire l'inserimento e la permanenza lavorativa delle persone affette da fibromialgia.
L'articolo 9 concerne la promozione di campagne di informazione.
L'articolo 10 reca norme finanziarie per la copertura delle spese previste dalla legge.
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Legislatura 19ª - Disegno di legge n. 507 - Nicola Irto cofirmatario
I campi di prigionia, internamento e concentramento vennero utilizzati in Italia già nelle guerre ottocentesche, ma il ricorso a essi divenne sistematico con le due guerre mondiali, al fine di detenere i soldati nemici e le categorie di persone ritenute pericolose per la sicurezza nazionale. Nel corso del secondo conflitto mondiale, vennero spesso utilizzate località e strutture preesistenti sia sul territorio nazionale sia nei territori occupati. Questi vennero prevalentemente collocati in edifici abbandonati o inutilizzati (castelli, ville, fabbriche, scuole eccetera), lontani dai centri abitati e dalle vie di comunicazione e dunque per lo più in pessime condizioni. I loro « ospiti », concentrati in località dal clima rigido e insalubre, erano costretti a subire difficilissime condizioni di prigionia, fatte di malnutrizione, ritmi lavorativi disumani, sovraffollamento, totale mancanza di igiene, continue vessazioni fisiche e psicologiche. In particolare, con l'instaurazione del regime fascista l'utilizzo di tali campi acquisì, nel corso del tempo, un ruolo centrale nel controllo degli oppositori politici.
La storia concentrazionaria fascista può essere sostanzialmente suddivisa in tre periodi: quello precedente al conflitto mondiale, quello della prima fase bellica (1940-1943) e quello successivo all'armistizio e all'occupazione nazifascista della penisola (1943-1945). L'allontanamento fisico dalla società degli avversari politici era, con il confino, una prassi consolidata per il regime, ma con lo scoppio della guerra esso venne riformulato attraverso la disposizione dell'internamento civile, concepito come un vero e proprio strumento amministrativo di prevenzione. La sua applicazione, centrata sostanzialmente sull'attività degli organi di polizia e facilitata dalla genericità delle norme, relative ad ambiti di fattispecie molto vasti, dall'emarginazione sociale agli atti sovversivi, lo rendevano uno strumento estremamente valido per intimidire e minacciare coloro che non si allineavano alla costruzione dello Stato totalitario. L'intera organizzazione concentrazionaria, pertanto, venne strutturata e sviluppata a partire dall'istituto del confino di polizia e sulla base della sua modalità di pianificazione. Seppure relativo ad un diverso contesto storico e caratterizzato da una regolamentazione differente, la misura del confino rappresentò, infatti, un precedente importante e fondamentale dal quale partire nella costruzione del sistema dell'internamento. Tale pratica venne infine regolamentata da una legislazione afferente sia alle leggi di guerra sia a quelle di pubblica sicurezza (i decreti cui si fa riferimento sono i seguenti: 8 luglio 1938, n. 1415, 10 giugno 1940, n. 566, 18 giugno 1931, n. 773, e 17 settembre 1940, n. 1374) che intendeva l'internamento come una misura volta a contenere e a isolare i civili italiani e stranieri ritenuti pericolosi soprattutto nelle contingenze belliche. Si trattò, quindi, di uno strumento fondamentale all'interno del sistema repressivo fascista, funzionale a favorire la politica di espansione territoriale del regime.
Venne creato l'« Ufficio internati » diviso in due sezioni, una per gli italiani e l'altra per gli stranieri e per coloro che erano colpevoli o sospettati di attività spionistica. I relativi elenchi erano conservati presso il Casellario politico centrale e sulla base di questi si procedeva agli arresti. Le categorie degli italiani da colpire erano già state individuate dalle prefetture fin dal 1929, articolate in: le « persone pericolosissime »; « pericolose perché capaci di turbare il tranquillo svolgimento di cerimonie » e « di turbamento dell'ordine pubblico »; gli « squilibrati mentali »; i « pregiudicati pericolosi per delitti comuni ». Ricalcando il metodo utilizzato per il confino, l'internato, proprio in base al suo grado di pericolosità, veniva inviato in uno dei numerosi « comuni d'internamento » o in uno dei 48 campi di concentramento. Nonostante la legislazione internazionale limitasse l'applicazione di misure di internamento ai soli riguardi dei sudditi nemici e di coloro che potevano compiere atti di sabotaggio o di spionaggio contro la Nazione in guerra, il fascismo le utilizzò, impropriamente, anche a carico degli oppositori politici, spesso preferendole al confino perché dalla procedura più rapida.
L'utilizzo dell'internamento ebbe un ruolo non secondario nella politica antisemita condotta dal regime. Il 15 giugno 1940 venne assunta da Mussolini la decisione di internare gli « ebrei stranieri appartenenti a Stati che fanno politica razziale »: si fece sì che tutti gli ebrei stranieri presenti nel territorio italiano potessero indiscriminatamente essere arrestati. L'elemento « razza », quindi, era prevalente rispetto al supposto pericolo che gli ebrei potevano rappresentare per l'ordine pubblico e l'internamento diventava di fatto un altro strumento di discriminazione antisemita.
Con la costituzione della Repubblica sociale italiana attraverso la ricostituzione del partito fascista nell'Italia settentrionale continuò, anzi venne rafforzata, l'applicazione delle misure di internamento: con l'ordine di polizia 30 novembre 1943, n. 5, in cui si decise l'allestimento dei campi di concentramento provinciali per gli ebrei, si passò alla fase più estrema del sistema di repressione e di segregazione politica e razziale del fascismo, in seguito alla quale ebbe inizio la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio nazisti. Tragici simboli di questo drammatico percorso sono i campi cosiddetti « di transito » di Fossoli di Carpi, Bolzano Gries, Borgo San Dalmazzo e la Risiera di San Sabba a Trieste.
L'Italia, superata la primavera-estate del 1945, dovette affrontare una impegnativa ricostruzione, allo stesso tempo materiale, valoriale e identitaria. Prevalse una sorta di rimozione nella dimensione del dibattito pubblico delle leggi razziali, dei crimini perpetrati durante le imprese coloniali italiane in Africa e nel settore balcanico, dei campi di concentramento e della fattiva collaborazione italiana nella spoliazione, persecuzione e deportazione degli ebrei.
La vicenda dei campi venne rimossa simbolicamente, e in alcuni casi, fisicamente, dalla memoria collettiva, con l'effetto di creare uno dei più emblematici e persistenti vuoti di memoria del dopoguerra, che, oltre alle vicende dei campi per ebrei, avvolse anche quelle dei campi coloniali.
Le riflessioni della comunità scientifica sul tema dei campi di concentramento fascisti hanno cominciato a toccare l'opinione pubblica e ad inserirsi in circuiti comunicativi diversi da quelli accademici o specialistici solo in tempi recenti. La creazione di una delle banche dati on line più complete sull'esperienza dei campi di concentramento risale al 2012. Si tratta del progetto « I campi fascisti. Dalle guerre in Africa alla Repubblica di Salò », concepito come « centro di documentazione on line sull'internamento e la prigionia come pratiche di repressione messe in atto dallo Stato italiano nel periodo che va dalla presa del potere da parte di Benito Mussolini (1922) fino alla fine della seconda guerra mondiale (1945) ». Una documentazione che ha scelto programmaticamente di partire non dagli avvenimenti storici in sé, bensì dai luoghi: per luoghi di internamento e prigionia sono state intese, infatti, « le località di confino, le carceri, i campi di concentramento, i comuni di internamento e quanto altro possa emergere dalla ricerca storica come contesto in cui siano state messe in atto queste pratiche repressive rivolte verso oppositori politici, specifiche categorie sociali, gruppi religiosi, civili e militari di Stati stranieri coinvolti in guerre od occupazioni militari ». Sulla base del medesimo progetto di ricerca, patrocinato, tra gli altri partners, anche da « Fondazione Museo della Shoah », « Europe for Citizens Programme », « Archivio Centrale dello Stato », e dalla regione Toscana, si può parlare – per il periodo pre-bellico e bellico (dati provvisori) – di 135 campi di concentramento, circa 85 campi e distaccamenti di lavoro, 109 campi di prigionia, 15 campi provinciali della Repubblica sociale italiana, a cui vanno aggiunte 85 carceri, 566 località d'internamento, 34 località di confino e 8 località di soggiorno obbligato.
È nostro dovere trasmettere alle nuove generazioni l'esperienza e la memoria di quanto accaduto, in modo che non vada dispersa la consapevolezza del tempo che viviamo. In questo quadro, i luoghi della memoria costituiscono il collante della nostra identità costituzionale e repubblicana. La dolorosa esistenza di così tanti luoghi è una tragica testimonianza della complessità della storia di quel periodo, della guerra, dei regimi totalitari che furono causa di incancellabili sofferenze: violenza su civili, deportazioni, negazioni dei diritti fondamentali dell'uomo e la difficile eredità del dopoguerra.
Abbiamo più che mai bisogno che venga recuperato il filo della storia, in questo tempo così complesso, così convulso, dove accade anche che si confondano i torti e le ragioni. Noi abbiamo bisogno di sapere, per non smarrire mai la consapevolezza di dove sono stati i torti e dove sono state le ragioni. Abbiamo bisogno di sapere da quale lotta gigantesca e a quale costo sovrumano sono nate la democrazia e la libertà che oggi abbiamo e che ci paiono scontate, facili, anche superficiali, ma che non lo sono. Per questo motivo lo studio della storia, la necessità di capire il Novecento, la necessità nelle nostre scuole di una didattica della memoria e di una didattica della Shoah, del regime fascista in Italia e nelle sue colonie, riguardano così da vicino la costruzione, sin dalle aule scolastiche, di una coscienza civile che sia condivisa e duratura, in cui tutti devono riconoscersi, nonché la formazione di cittadini consapevoli, che si sentano parte di uno stesso destino.
Storia e memoria stanno insieme. Senza storia e senza memoria non c'è identità e per una Nazione, per una società, per una collettività non ci può essere futuro. Senza storia, senza memoria e senza identità c'è il vuoto delle coscienze che genera indifferenza, pregiudizio e discriminazione. La scuola, la ricerca, la conoscenza possono essere gli antidoti.
Questo è il senso di questo disegno di legge e della battaglia per la scuola pubblica ed inclusiva, strumento potente di riscatto e di emancipazione perché ha il dovere di creare un legame tra le generazioni di ieri, di oggi e di domani. Un legame di valori universali, quelli della democrazia, del rispetto reciproco, dei diritti che mai devono essere calpestati.
Per quanto premesso, per il valore storico, per l'importanza che assume la memoria, con particolare riguardo all'eredità verso le future generazioni, l'articolo 1 del presente disegno di legge prevede la realizzazione di ricerche storiche, documentali e archivistiche, di manifestazioni, convegni, mostre, pubblicazioni e percorsi di visita mediante la Struttura di Missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L'articolo 2 promuove, mediante il Ministero dell'istruzione e del merito, nel rispetto dell'autonomia scolastica, i « viaggi nella storia e nella Memoria » presso i campi di prigionia, internamento e concentramento in Italia, con particolare riferimento a quelli installati durante il periodo fascista compreso tra il 1922 e il 1945, rivolti a studentesse e studenti delle scuole di ogni ordine e grado.
L'articolo 3, infine, stabilisce gli oneri finanziari in misura di 3 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023, 2024 e 2025.
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Legislatura 19ª - Disegno di legge n. 397 - Nicola Irto cofirmatario
Il presente disegno di legge prevede di dare concreta attuazione alla recente modifica dell'articolo 119 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica « riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall'insularità ». A tal fine, occorre definire e dare priorità ad una nuova politica di contrasto degli svantaggi dell'insularità. Ridurre i divari tra cittadini e tra territori, con particolare riferimento alle isole, non è solo la priorità nazionale per un'Italia più unita e più giusta, è la vera occasione per riavviare uno sviluppo forte e durevole, per riprendere a investire attivando potenziali di crescita e innovazione inespressi, per creare opportunità di lavoro buono, in particolare per i giovani e le donne. Le difficoltà specifiche del Mezzogiorno sono note, a partire dal lavoro (con tassi di occupazione strutturalmente molto più bassi rispetto al Centro-Nord, in particolare per quanto riguarda donne e giovani) e dallo scarso livello dei servizi di cittadinanza (primi fra tutti quelli sanitari e socio-assistenziali). Condizioni che troppo spesso mettono le giovani e i giovani del Mezzogiorno di fronte a un'unica scelta: andarsene. Negli ultimi dieci anni l'emigrazione netta dal Sud e dalle isole verso il Centro-Nord ha superato il mezzo milione di persone, una cifra equivalente all'intera Basilicata. Questo quadro è ancora più preoccupante con riferimento alle isole, a partire dalla Sardegna e dalla Sicilia. Eppure, in queste due regioni, si riscontra una grande vitalità e capacità di innovazione, nelle forze sociali e imprenditoriali, nelle forme della cittadinanza attiva, in luoghi che rappresentano il cambiamento possibile, in realtà che sperimentano già modelli locali di sviluppo sostenibile.
All'interno del tema delle politiche di promozione del Mezzogiorno vi è una specificità negli svantaggi derivanti dall'insularità che, come riconosciuto oggi dalla nostra Costituzione, necessitano di misure dedicate di contrasto. Occorre dunque sviluppare e diffondere un rinnovato approccio ai problemi dell'insularità, capace di realizzare condizioni di benessere, accelerare e supportare i processi virtuosi. La premessa è dare risposte alle emergenze e ai bisogni, dove necessario riconquistando i territori insulari e i loro cittadini alla legalità. Un principio delle politiche di contrasto all'insularità che proponiamo è quello dell'« accesso egualitario ai servizi nel territorio », tra i cittadini e le imprese che vivono la realtà dell'insularità e le migliori esperienze sul territorio nazionale.
Dopo la modifica dell'articolo 119 della Costituzione, occorre ora garantire una continuità territoriale sostanziale, che assicuri davvero agli abitanti delle isole di godere degli stessi diritti degli altri cittadini, riconoscendo al contempo la straordinaria ricchezza e specificità. Un approccio ai problemi dell'insularità rivolto ai giovani, dove l'investimento in istruzione e formazione, dall'asilo all'università, sia una priorità assoluta, per combattere la prima ingiustizia italiana e cioè che il destino di una persona sia segnato dalla famiglia e dal luogo in cui nasce: la prima ragione dell'esodo delle nuove generazioni insulari che rappresenta la vera emergenza nazionale. I giovani delle isole devono essere liberi di andare e di tornare. Noi vogliamo garantire il « diritto a restare ». Un approccio inclusivo, perché i bisogni prioritari di infrastrutturazione non riguardano soltanto la connessione fisica ma anche l'inclusione sociale. Attraverso l'investimento nelle infrastrutture sociali e nei servizi vogliamo promuovere la piena cittadinanza, garantire i diritti sociali in tutto il territorio nazionale, senza esclusioni. Vogliamo un Paese più connesso, per rilanciare la sua competitività. Per farlo, dobbiamo garantire ai territori insulari il « diritto alla connessione », per rompere l'isolamento di alcune aree interne e dei piccoli comuni e, attraverso il rilancio degli investimenti nelle reti e nei servizi di trasporto, migliorare l'accesso e la connessione alle reti europee. Quello che si propone è un approccio ai problemi dell'insularità con l'obiettivo di operare una svolta ecologica, perché la prospettiva di una « transizione giusta » acquista, sia a livello europeo che a livello nazionale, una forte connotazione territoriale. Per le isole italiane, il nuovo corso verde dell'economia e della società rappresenta un'occasione unica, dopo decenni, per non limitarsi a inseguire i processi di sviluppo più avanzati ma per anticipare e sperimentare nuove vie di produzione e benessere. Con gli investimenti previsti vogliamo e possiamo realizzare nei territori insulari italiani il ciclo integrato dei rifiuti per garantire servizi adeguati ai cittadini, favorire nuove opportunità di sviluppo, nel segno della sostenibilità e della legalità. Un approccio ai problemi dell'insularità aperto al mondo del Mediterraneo per accompagnare l'internazionalizzazione dell'economia meridionale, puntando sulla sua vocazione portuale. Una vocazione scritta nella sua geografia e nella sua storia che oggi possiamo rendere di nuovo una prospettiva concreta. La collocazione al centro del Mediterraneo allargato impone una nuova consapevolezza a livello europeo della centralità del Mare Nostrum, dettata non solo dalle dinamiche economiche, ma soprattutto dalla stratificazione storica delle relazioni culturali, da rilanciare in un'ottica di interscambio tra le nuove generazioni, per una prospettiva di pace e benessere diffuso, anche attraverso programmi dedicati di cooperazione.
In tale quadro, occorre definire la natura dei costi derivanti dall'insularità per cittadini, istituzioni e imprese e procedere, anche sulla base di un'indagine conoscitiva supportata dalle valutazioni dell'Ufficio parlamentare di bilancio, ad una loro stima. Conseguentemente, occorre individuare i settori su cui intervenire con interventi compensativi, a partire dai seguenti settori: sanità, istruzione e università, trasporti nella continuità territoriale, energia. Ne consegue la necessità di definire i correttivi da insularità all'interno del sistema dei livelli essenziali delle prestazioni, anche per contrastare lo spopolamento e poter costruire servizi sulla base delle specificità demografiche e geografiche dei territori insulari.
Sotto un profilo più generale, occorre promuovere uno specifico strumento nell'ambito della Politica di coesione dell'Unione europea espressamente orientato al contrasto degli svantaggi dell'insularità a livello europeo, adeguando la disciplina europea in materia di aiuti di Stato per le isole e definire una fiscalità specifica di vantaggio per le isole, compatibilmente con il rispetto delle norme dell'Unione europea. Occorre, inoltre, realizzare una fiscalità di vantaggio per il lavoro nelle isole, attraverso il negoziato con la Commissione europea, così da accompagnare tutta la stagione di rilancio degli investimenti per massimizzarne l'impatto occupazionale.
Per questo motivo il presente disegno di legge propone l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta per il contrasto agli svantaggi derivanti da insularità.
L'occasione di assumere nella politica ordinaria nazionale gli obiettivi complementari della crescita e della coesione economica, sociale e territoriale delle isole va colta non solo per motivi di equità ma anche perché la riduzione dei divari tra cittadini, imprese e territori è la condizione necessaria per riavviare lo sviluppo nazionale.