Legislatura 19ª - Disegno di legge n. 603 Disposizioni in favore delle persone affette da fibromialgia COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 16 MARZO 2023 – Nicola Irto cofirmatario

Il presente disegno di legge riprende sostanzialmente il testo dell'atto senato n. 299, a prima firma della senatrice Boldrini, presentato nella XVIII legislatura e adottato come testo base dalla Commissione sanità del Senato.
La sindrome fibromialgica, malattia neurologica riconosciuta dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dal 1992 con la cosiddetta Dichiarazione di Copenhagen e inclusa nella decima revisione dell'International statistical classification of diseases and related health problems (ICD-10, codice M79-7), colpisce in Italia, secondo lo studio Prevalence of fibromyalgia: a survey in five european countries, circa 2-3 milioni di persone, corrispondenti al 3-4 per cento dell'intera popolazione; sei volte su sette la patologia riguarda donne in età giovanile.
La fibromialgia è una sindrome dolorosa cronica da sensibilizzazione centrale caratterizzata dalla disfunzione dei circuiti neurologici preposti all'elaborazione degli impulsi provenienti dalle afferenze del dolore (nocicettive) dalla periferia al cervello.
La predetta patologia si manifesta, secondo i principali criteri diagnostici, con dolore muscolo-scheletrico diffuso e con la presenza di specifiche aree dolorose alla digito-pressione (tender points), l'affaticamento costante, una rigidità generalizzata, un sonno non ristoratore, il mal di testa, la vescica iperattiva, la dismenorrea, l'ipersensibilità al freddo, il cosiddetto fenomeno di Raynoud, la sindrome delle gambe senza riposo, l'intorpidimento, il formicolio atipico, il prurito, la sensazione di pressione e di stringimento, l'allodinia, una scarsa resistenza all'esercizio fisico e una generale sensazione di debolezza. Sovente si manifestano anche altri sintomi come l'astenia, l'insonnia e risvegli notturni, disturbi cognitivi (confusione mentale, alterazione della memoria e della concentrazione), dolori addominali e colon irritabile (60 per cento), dispepsia, intolleranza al freddo o al caldo, secchezza delle mucose, sintomi urinari e genitali.
Anche soltanto uno di questi sintomi spesso limita fortemente la persona che ne soffre nell'eseguire attività normali e ha riflessi nell'inserimento nel mondo del lavoro, nella capacità lavorativa e nelle stesse relazioni sociali.
Lo stress, l'ansia e la depressione hanno una netta correlazione con questa patologia e molti pazienti fibromialgici presentano sintomi poliformi associabili a malattie autoimmuni come la tiroidite di Hashimoto, il lupus eritematoso sistemico, l'artrite reumatoide e la sindrome di Sjoegren e, uno su tre, positività agli anticorpi anti nucleo.
Nonostante la fibromialgia sia una condizione grave che colpisce un elevato numero di persone e pur essendo, per l'ampio spettro di sintomatologie da considerare, di interesse multidisciplinare, essa non è ancora riconosciuta come malattia invalidante a tutti gli effetti. Appare pertanto evidente l'urgenza di un approccio sistemico che consideri tale patologia nel suo insieme e non come sommatoria di tanti sintomi.
La subdola eterogeneità della fibromialgia comporta inoltre il fatto che le persone che ne sono affette non riescono a ricevere in tempi ragionevoli cure adeguate. Il mancato riconoscimento della causa del dolore e delle conseguenze che questo provoca nella persona sono i principali motivi di isolamento e sono causa di ulteriore sofferenza.
La difficoltà diagnostica dà infatti spesso il via a un percorso nosocomiale che si protrae per anni, un costoso calvario pieno di sofferenza e contraddistinto da crescente disabilità.
Anche se non esiste una cura specifica, essendo una malattia cronica la fibromialgia richiede trattamenti multidisciplinari a lungo termine, farmacologici convenzionali e non convenzionali, ossigenoterapia iperbarica e ozono terapia. Sono importanti anche approcci personalizzati per le specifiche esigenze dei pazienti: terapie antalgiche (agopuntura o criostimolazione), fitoterapiche, l'approccio nutraceutico e nutrizionistico, la ginnastica dolce, il linfodrenaggio, la fisioterapia, l'acqua antalgica e la psicoterapia.
Essendo la sua caratteristica principale il dolore, i malati di fibromialgia dovrebbero rientrare pienamente nella categoria delle persone che necessitano di terapia del dolore e dei livelli essenziali di assistenza.
Secondo il dettato dell'articolo 32 della Costituzione, « La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti(...) ». Appare pertanto di tutta evidenza l'obbligo dello Stato di riconoscere anche a chi soffre di fibromialgia le cure, le spese mediche e gli esami diagnostici necessari, così come per altre malattie invalidanti.
Sebbene di per sé la patologia de quo non abbia implicazioni dirette sull'aspettativa di vita, è indubbia la persistente limitazione che da essa deriva, nonché la necessità di interventi di attenuazione del dolore, che garantiscano almeno una parziale autonomia del paziente con possibilità reali di autosufficienza e conseguentemente un consistente miglioramento della qualità di vita.
La caratteristica dominante nella fibromialgia è il dolore: esso viene considerato cronico se ha una durata superiore a tre mesi e colpisce un europeo su cinque, con un trend purtroppo in costante crescita. Anche dal punto di vista dei costi di gestione dei pazienti, il dolore cronico è tra le forme di sofferenza a più alto costo nei Paesi industrializzati con almeno 500 milioni di giorni di lavoro persi ogni anno in Europa, corrispondenti a un costo di circa 34 miliardi di euro.
Sebbene siano passati ventisei anni dall'inserimento da parte dell'OMS della fibromialgia nel Manuale di classificazione internazionale delle malattie e benché altre organizzazioni mediche di carattere internazionale la ritengano una malattia cronica, ancora oggi non tutti i Paesi europei condividono tale posizione e, tra essi. anche l'Italia.
Il disegno di legge in oggetto muove pertanto da queste considerazioni, al fine di garantire risposte adeguate da parte delle istituzioni: occorre recepire le istanze e i bisogni di queste persone, promuovere forme di aiuto e di sostegno, prevedere che lo Stato, nelle sue articolazioni, si faccia carico di questa patologia per garantire le risposte più efficaci dal punto di vista clinico, sociale e relazionale.
Riconoscere la fibromialgia come malattia invalidante ne consentirebbe l'inserimento tra le patologie che danno diritto all'esenzione dalla partecipazione al costo per le correlate prestazioni sanitarie, stanti le condizioni di forte disagio e malessere psico-fisico che si manifestano nelle persone che ne sono affette; comporterebbe altresì l'individuazione sul territorio nazionale sia di strutture sanitarie pubbliche idonee alla diagnosi e alla riabilitazione di questa patologia, sia di centri di ricerca per lo studio di tale sindrome, al fine di garantire la formazione continua – anche alla luce delle disposizioni di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 – la diagnosi e, infine, i relativi protocolli terapeutici.
Un riconoscimento « legislativo » della predetta patologia o, almeno, l'attenzione al fenomeno, al livello regionale risulta a macchia di leopardo. In assenza dell'inserimento nel nomenclatore del Ministero della salute, la fibromialgia non è prevista come diagnosi nei tabulati di dimissione ospedaliera, con conseguente inapplicabilità di alcuna forma di esenzione alla partecipazione alla spesa.
Alcune regioni hanno approvato leggi in materia. A livello nazionale è dunque opportuno dare uniformità al sistema e seguito effettivo alle raccomandazioni dell'OMS e del Parlamento europeo, assicurare omogeneità di trattamento a tutti i soggetti affetti da questa patologia nonché superare le disomogeneità derivanti dalle differenti normative regionali relative al riconoscimento della fibromialgia come malattia invalidante.
Il presente disegno di legge si compone di dieci articoli.
In particolare, l'articolo 1 reca le finalità della legge.
L'articolo 2 prevede il riconoscimento della fibromialgia come malattia invalidante.
L'articolo 3 prevede disposizioni per l'esenzione dalla spesa sanitaria per le persone affette da tale patologia.
L'articolo 4 reca disposizioni per l'individuazione di specifiche strutture sanitarie per la cura della fibromialgia, per la predisposizione di specifici protocolli terapeutici e riabilitativi e per la rilevazione statistica dei soggetti affetti.
L'articolo 5 disciplina l'istituzione del Registro nazionale della fibromialgia.
L'articolo 6 si occupa della formazione del personale medico e paramedico.
L'articolo 7 riguarda la promozione di studi e di ricerche per identificare criteri diagnostici validati capaci di individuare la fibromialgia, in particolare le loro forme più gravi e invalidanti, terapie innovative e la loro efficacia, le prestazioni specialistiche più appropriate ed efficaci, l'impiego di farmaci per il controllo dei sintomi, il monitoraggio e la prevenzione degli eventuali aggravamenti.
L'articolo 8 prevede la definizione di accordi per favorire l'inserimento e la permanenza lavorativa delle persone affette da fibromialgia.
L'articolo 9 concerne la promozione di campagne di informazione.
L'articolo 10 reca norme finanziarie per la copertura delle spese previste dalla legge.

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Legislatura 19ª - Disegno di legge n. 507 - Nicola Irto cofirmatario

I campi di prigionia, internamento e concentramento vennero utilizzati in Italia già nelle guerre ottocentesche, ma il ricorso a essi divenne sistematico con le due guerre mondiali, al fine di detenere i soldati nemici e le categorie di persone ritenute pericolose per la sicurezza nazionale. Nel corso del secondo conflitto mondiale, vennero spesso utilizzate località e strutture preesistenti sia sul territorio nazionale sia nei territori occupati. Questi vennero prevalentemente collocati in edifici abbandonati o inutilizzati (castelli, ville, fabbriche, scuole eccetera), lontani dai centri abitati e dalle vie di comunicazione e dunque per lo più in pessime condizioni. I loro « ospiti », concentrati in località dal clima rigido e insalubre, erano costretti a subire difficilissime condizioni di prigionia, fatte di malnutrizione, ritmi lavorativi disumani, sovraffollamento, totale mancanza di igiene, continue vessazioni fisiche e psicologiche. In particolare, con l'instaurazione del regime fascista l'utilizzo di tali campi acquisì, nel corso del tempo, un ruolo centrale nel controllo degli oppositori politici.
La storia concentrazionaria fascista può essere sostanzialmente suddivisa in tre periodi: quello precedente al conflitto mondiale, quello della prima fase bellica (1940-1943) e quello successivo all'armistizio e all'occupazione nazifascista della penisola (1943-1945). L'allontanamento fisico dalla società degli avversari politici era, con il confino, una prassi consolidata per il regime, ma con lo scoppio della guerra esso venne riformulato attraverso la disposizione dell'internamento civile, concepito come un vero e proprio strumento amministrativo di prevenzione. La sua applicazione, centrata sostanzialmente sull'attività degli organi di polizia e facilitata dalla genericità delle norme, relative ad ambiti di fattispecie molto vasti, dall'emarginazione sociale agli atti sovversivi, lo rendevano uno strumento estremamente valido per intimidire e minacciare coloro che non si allineavano alla costruzione dello Stato totalitario. L'intera organizzazione concentrazionaria, pertanto, venne strutturata e sviluppata a partire dall'istituto del confino di polizia e sulla base della sua modalità di pianificazione. Seppure relativo ad un diverso contesto storico e caratterizzato da una regolamentazione differente, la misura del confino rappresentò, infatti, un precedente importante e fondamentale dal quale partire nella costruzione del sistema dell'internamento. Tale pratica venne infine regolamentata da una legislazione afferente sia alle leggi di guerra sia a quelle di pubblica sicurezza (i decreti cui si fa riferimento sono i seguenti: 8 luglio 1938, n. 1415, 10 giugno 1940, n. 566, 18 giugno 1931, n. 773, e 17 settembre 1940, n. 1374) che intendeva l'internamento come una misura volta a contenere e a isolare i civili italiani e stranieri ritenuti pericolosi soprattutto nelle contingenze belliche. Si trattò, quindi, di uno strumento fondamentale all'interno del sistema repressivo fascista, funzionale a favorire la politica di espansione territoriale del regime.
Venne creato l'« Ufficio internati » diviso in due sezioni, una per gli italiani e l'altra per gli stranieri e per coloro che erano colpevoli o sospettati di attività spionistica. I relativi elenchi erano conservati presso il Casellario politico centrale e sulla base di questi si procedeva agli arresti. Le categorie degli italiani da colpire erano già state individuate dalle prefetture fin dal 1929, articolate in: le « persone pericolosissime »; « pericolose perché capaci di turbare il tranquillo svolgimento di cerimonie » e « di turbamento dell'ordine pubblico »; gli « squilibrati mentali »; i « pregiudicati pericolosi per delitti comuni ». Ricalcando il metodo utilizzato per il confino, l'internato, proprio in base al suo grado di pericolosità, veniva inviato in uno dei numerosi « comuni d'internamento » o in uno dei 48 campi di concentramento. Nonostante la legislazione internazionale limitasse l'applicazione di misure di internamento ai soli riguardi dei sudditi nemici e di coloro che potevano compiere atti di sabotaggio o di spionaggio contro la Nazione in guerra, il fascismo le utilizzò, impropriamente, anche a carico degli oppositori politici, spesso preferendole al confino perché dalla procedura più rapida.
L'utilizzo dell'internamento ebbe un ruolo non secondario nella politica antisemita condotta dal regime. Il 15 giugno 1940 venne assunta da Mussolini la decisione di internare gli « ebrei stranieri appartenenti a Stati che fanno politica razziale »: si fece sì che tutti gli ebrei stranieri presenti nel territorio italiano potessero indiscriminatamente essere arrestati. L'elemento « razza », quindi, era prevalente rispetto al supposto pericolo che gli ebrei potevano rappresentare per l'ordine pubblico e l'internamento diventava di fatto un altro strumento di discriminazione antisemita.
Con la costituzione della Repubblica sociale italiana attraverso la ricostituzione del partito fascista nell'Italia settentrionale continuò, anzi venne rafforzata, l'applicazione delle misure di internamento: con l'ordine di polizia 30 novembre 1943, n. 5, in cui si decise l'allestimento dei campi di concentramento provinciali per gli ebrei, si passò alla fase più estrema del sistema di repressione e di segregazione politica e razziale del fascismo, in seguito alla quale ebbe inizio la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio nazisti. Tragici simboli di questo drammatico percorso sono i campi cosiddetti « di transito » di Fossoli di Carpi, Bolzano Gries, Borgo San Dalmazzo e la Risiera di San Sabba a Trieste.
L'Italia, superata la primavera-estate del 1945, dovette affrontare una impegnativa ricostruzione, allo stesso tempo materiale, valoriale e identitaria. Prevalse una sorta di rimozione nella dimensione del dibattito pubblico delle leggi razziali, dei crimini perpetrati durante le imprese coloniali italiane in Africa e nel settore balcanico, dei campi di concentramento e della fattiva collaborazione italiana nella spoliazione, persecuzione e deportazione degli ebrei.
La vicenda dei campi venne rimossa simbolicamente, e in alcuni casi, fisicamente, dalla memoria collettiva, con l'effetto di creare uno dei più emblematici e persistenti vuoti di memoria del dopoguerra, che, oltre alle vicende dei campi per ebrei, avvolse anche quelle dei campi coloniali.
Le riflessioni della comunità scientifica sul tema dei campi di concentramento fascisti hanno cominciato a toccare l'opinione pubblica e ad inserirsi in circuiti comunicativi diversi da quelli accademici o specialistici solo in tempi recenti. La creazione di una delle banche dati on line più complete sull'esperienza dei campi di concentramento risale al 2012. Si tratta del progetto « I campi fascisti. Dalle guerre in Africa alla Repubblica di Salò », concepito come « centro di documentazione on line sull'internamento e la prigionia come pratiche di repressione messe in atto dallo Stato italiano nel periodo che va dalla presa del potere da parte di Benito Mussolini (1922) fino alla fine della seconda guerra mondiale (1945) ». Una documentazione che ha scelto programmaticamente di partire non dagli avvenimenti storici in sé, bensì dai luoghi: per luoghi di internamento e prigionia sono state intese, infatti, « le località di confino, le carceri, i campi di concentramento, i comuni di internamento e quanto altro possa emergere dalla ricerca storica come contesto in cui siano state messe in atto queste pratiche repressive rivolte verso oppositori politici, specifiche categorie sociali, gruppi religiosi, civili e militari di Stati stranieri coinvolti in guerre od occupazioni militari ». Sulla base del medesimo progetto di ricerca, patrocinato, tra gli altri partners, anche da « Fondazione Museo della Shoah », « Europe for Citizens Programme », « Archivio Centrale dello Stato », e dalla regione Toscana, si può parlare – per il periodo pre-bellico e bellico (dati provvisori) – di 135 campi di concentramento, circa 85 campi e distaccamenti di lavoro, 109 campi di prigionia, 15 campi provinciali della Repubblica sociale italiana, a cui vanno aggiunte 85 carceri, 566 località d'internamento, 34 località di confino e 8 località di soggiorno obbligato.
È nostro dovere trasmettere alle nuove generazioni l'esperienza e la memoria di quanto accaduto, in modo che non vada dispersa la consapevolezza del tempo che viviamo. In questo quadro, i luoghi della memoria costituiscono il collante della nostra identità costituzionale e repubblicana. La dolorosa esistenza di così tanti luoghi è una tragica testimonianza della complessità della storia di quel periodo, della guerra, dei regimi totalitari che furono causa di incancellabili sofferenze: violenza su civili, deportazioni, negazioni dei diritti fondamentali dell'uomo e la difficile eredità del dopoguerra.
Abbiamo più che mai bisogno che venga recuperato il filo della storia, in questo tempo così complesso, così convulso, dove accade anche che si confondano i torti e le ragioni. Noi abbiamo bisogno di sapere, per non smarrire mai la consapevolezza di dove sono stati i torti e dove sono state le ragioni. Abbiamo bisogno di sapere da quale lotta gigantesca e a quale costo sovrumano sono nate la democrazia e la libertà che oggi abbiamo e che ci paiono scontate, facili, anche superficiali, ma che non lo sono. Per questo motivo lo studio della storia, la necessità di capire il Novecento, la necessità nelle nostre scuole di una didattica della memoria e di una didattica della Shoah, del regime fascista in Italia e nelle sue colonie, riguardano così da vicino la costruzione, sin dalle aule scolastiche, di una coscienza civile che sia condivisa e duratura, in cui tutti devono riconoscersi, nonché la formazione di cittadini consapevoli, che si sentano parte di uno stesso destino.
Storia e memoria stanno insieme. Senza storia e senza memoria non c'è identità e per una Nazione, per una società, per una collettività non ci può essere futuro. Senza storia, senza memoria e senza identità c'è il vuoto delle coscienze che genera indifferenza, pregiudizio e discriminazione. La scuola, la ricerca, la conoscenza possono essere gli antidoti.
Questo è il senso di questo disegno di legge e della battaglia per la scuola pubblica ed inclusiva, strumento potente di riscatto e di emancipazione perché ha il dovere di creare un legame tra le generazioni di ieri, di oggi e di domani. Un legame di valori universali, quelli della democrazia, del rispetto reciproco, dei diritti che mai devono essere calpestati.
Per quanto premesso, per il valore storico, per l'importanza che assume la memoria, con particolare riguardo all'eredità verso le future generazioni, l'articolo 1 del presente disegno di legge prevede la realizzazione di ricerche storiche, documentali e archivistiche, di manifestazioni, convegni, mostre, pubblicazioni e percorsi di visita mediante la Struttura di Missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L'articolo 2 promuove, mediante il Ministero dell'istruzione e del merito, nel rispetto dell'autonomia scolastica, i « viaggi nella storia e nella Memoria » presso i campi di prigionia, internamento e concentramento in Italia, con particolare riferimento a quelli installati durante il periodo fascista compreso tra il 1922 e il 1945, rivolti a studentesse e studenti delle scuole di ogni ordine e grado.
L'articolo 3, infine, stabilisce gli oneri finanziari in misura di 3 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023, 2024 e 2025.

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Legislatura 19ª - Disegno di legge n. 397 - Nicola Irto cofirmatario

Il presente disegno di legge prevede di dare concreta attuazione alla recente modifica dell'articolo 119 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica « riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall'insularità ». A tal fine, occorre definire e dare priorità ad una nuova politica di contrasto degli svantaggi dell'insularità. Ridurre i divari tra cittadini e tra territori, con particolare riferimento alle isole, non è solo la priorità nazionale per un'Italia più unita e più giusta, è la vera occasione per riavviare uno sviluppo forte e durevole, per riprendere a investire attivando potenziali di crescita e innovazione inespressi, per creare opportunità di lavoro buono, in particolare per i giovani e le donne. Le difficoltà specifiche del Mezzogiorno sono note, a partire dal lavoro (con tassi di occupazione strutturalmente molto più bassi rispetto al Centro-Nord, in particolare per quanto riguarda donne e giovani) e dallo scarso livello dei servizi di cittadinanza (primi fra tutti quelli sanitari e socio-assistenziali). Condizioni che troppo spesso mettono le giovani e i giovani del Mezzogiorno di fronte a un'unica scelta: andarsene. Negli ultimi dieci anni l'emigrazione netta dal Sud e dalle isole verso il Centro-Nord ha superato il mezzo milione di persone, una cifra equivalente all'intera Basilicata. Questo quadro è ancora più preoccupante con riferimento alle isole, a partire dalla Sardegna e dalla Sicilia. Eppure, in queste due regioni, si riscontra una grande vitalità e capacità di innovazione, nelle forze sociali e imprenditoriali, nelle forme della cittadinanza attiva, in luoghi che rappresentano il cambiamento possibile, in realtà che sperimentano già modelli locali di sviluppo sostenibile.
All'interno del tema delle politiche di promozione del Mezzogiorno vi è una specificità negli svantaggi derivanti dall'insularità che, come riconosciuto oggi dalla nostra Costituzione, necessitano di misure dedicate di contrasto. Occorre dunque sviluppare e diffondere un rinnovato approccio ai problemi dell'insularità, capace di realizzare condizioni di benessere, accelerare e supportare i processi virtuosi. La premessa è dare risposte alle emergenze e ai bisogni, dove necessario riconquistando i territori insulari e i loro cittadini alla legalità. Un principio delle politiche di contrasto all'insularità che proponiamo è quello dell'« accesso egualitario ai servizi nel territorio », tra i cittadini e le imprese che vivono la realtà dell'insularità e le migliori esperienze sul territorio nazionale.
Dopo la modifica dell'articolo 119 della Costituzione, occorre ora garantire una continuità territoriale sostanziale, che assicuri davvero agli abitanti delle isole di godere degli stessi diritti degli altri cittadini, riconoscendo al contempo la straordinaria ricchezza e specificità. Un approccio ai problemi dell'insularità rivolto ai giovani, dove l'investimento in istruzione e formazione, dall'asilo all'università, sia una priorità assoluta, per combattere la prima ingiustizia italiana e cioè che il destino di una persona sia segnato dalla famiglia e dal luogo in cui nasce: la prima ragione dell'esodo delle nuove generazioni insulari che rappresenta la vera emergenza nazionale. I giovani delle isole devono essere liberi di andare e di tornare. Noi vogliamo garantire il « diritto a restare ». Un approccio inclusivo, perché i bisogni prioritari di infrastrutturazione non riguardano soltanto la connessione fisica ma anche l'inclusione sociale. Attraverso l'investimento nelle infrastrutture sociali e nei servizi vogliamo promuovere la piena cittadinanza, garantire i diritti sociali in tutto il territorio nazionale, senza esclusioni. Vogliamo un Paese più connesso, per rilanciare la sua competitività. Per farlo, dobbiamo garantire ai territori insulari il « diritto alla connessione », per rompere l'isolamento di alcune aree interne e dei piccoli comuni e, attraverso il rilancio degli investimenti nelle reti e nei servizi di trasporto, migliorare l'accesso e la connessione alle reti europee. Quello che si propone è un approccio ai problemi dell'insularità con l'obiettivo di operare una svolta ecologica, perché la prospettiva di una « transizione giusta » acquista, sia a livello europeo che a livello nazionale, una forte connotazione territoriale. Per le isole italiane, il nuovo corso verde dell'economia e della società rappresenta un'occasione unica, dopo decenni, per non limitarsi a inseguire i processi di sviluppo più avanzati ma per anticipare e sperimentare nuove vie di produzione e benessere. Con gli investimenti previsti vogliamo e possiamo realizzare nei territori insulari italiani il ciclo integrato dei rifiuti per garantire servizi adeguati ai cittadini, favorire nuove opportunità di sviluppo, nel segno della sostenibilità e della legalità. Un approccio ai problemi dell'insularità aperto al mondo del Mediterraneo per accompagnare l'internazionalizzazione dell'economia meridionale, puntando sulla sua vocazione portuale. Una vocazione scritta nella sua geografia e nella sua storia che oggi possiamo rendere di nuovo una prospettiva concreta. La collocazione al centro del Mediterraneo allargato impone una nuova consapevolezza a livello europeo della centralità del Mare Nostrum, dettata non solo dalle dinamiche economiche, ma soprattutto dalla stratificazione storica delle relazioni culturali, da rilanciare in un'ottica di interscambio tra le nuove generazioni, per una prospettiva di pace e benessere diffuso, anche attraverso programmi dedicati di cooperazione.
In tale quadro, occorre definire la natura dei costi derivanti dall'insularità per cittadini, istituzioni e imprese e procedere, anche sulla base di un'indagine conoscitiva supportata dalle valutazioni dell'Ufficio parlamentare di bilancio, ad una loro stima. Conseguentemente, occorre individuare i settori su cui intervenire con interventi compensativi, a partire dai seguenti settori: sanità, istruzione e università, trasporti nella continuità territoriale, energia. Ne consegue la necessità di definire i correttivi da insularità all'interno del sistema dei livelli essenziali delle prestazioni, anche per contrastare lo spopolamento e poter costruire servizi sulla base delle specificità demografiche e geografiche dei territori insulari.
Sotto un profilo più generale, occorre promuovere uno specifico strumento nell'ambito della Politica di coesione dell'Unione europea espressamente orientato al contrasto degli svantaggi dell'insularità a livello europeo, adeguando la disciplina europea in materia di aiuti di Stato per le isole e definire una fiscalità specifica di vantaggio per le isole, compatibilmente con il rispetto delle norme dell'Unione europea. Occorre, inoltre, realizzare una fiscalità di vantaggio per il lavoro nelle isole, attraverso il negoziato con la Commissione europea, così da accompagnare tutta la stagione di rilancio degli investimenti per massimizzarne l'impatto occupazionale.
Per questo motivo il presente disegno di legge propone l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta per il contrasto agli svantaggi derivanti da insularità.
L'occasione di assumere nella politica ordinaria nazionale gli obiettivi complementari della crescita e della coesione economica, sociale e territoriale delle isole va colta non solo per motivi di equità ma anche perché la riduzione dei divari tra cittadini, imprese e territori è la condizione necessaria per riavviare lo sviluppo nazionale.

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Disposizioni in materia di redazione del bilancio di genere da parte delle regioni e degli enti locali - Disegno di legge n. 36 COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 13 OTTOBRE 2022 - Nicola Irto cofirmatario

L'Italia è uno dei Paesi avanzati con più elevati divari di genere: nonostante i progressi degli ultimi anni, emergono ancora bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, minore tasso di occupazione, segmentazione orizzontale e verticale del mercato, limitata presenza nelle posizioni apicali delle imprese quotate. Tale situazione è ulteriormente peggiorata a seguito della crisi generata dalla pandemia di COVID-19, che ha determinato un impatto particolarmente negativo sulle donne non solo in termini di una significativa perdita di posti di lavoro in settori dominati dalla presenza femminile, e di condizioni di lavoro peggiori, ma anche in un'accresciuta fragilità economica e in un conflitto vita-lavoro ancora più aspro del passato, che hanno ampliato i divari di genere preesistenti in ambiti chiave del benessere. La pandemia di COVID-19 ha infatti costituito una sorta di banco di prova per la distribuzione fra uomini e donne delle responsabilità di cura domestica e familiare e, come emerso dai dati dell'ultima Relazione sulla sperimentazione dell'adozione di un bilancio di genere, riferita all'anno 2020, presentata alla Camera dei deputi nella scorsa legislatura (Doc. XXVII, n. 27), e illustrata dalla Sottosegretaria di Stato al Ministero dell'economia e delle finanze Cecilia Guerra del Governo Draghi in audizione presso le Commissioni bilancio di Camera e Senato, l'esito è stato quello di « un vero e proprio “fallimento redistributivo” del tempo di lavoro e di cura tra uomini e donne a seguito dello shock pandemico ».
Assai opportuna è stata in tal senso la scelta del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) di rendere strutturale il bilancio di genere, prevedendo che la legge di bilancio per il 2024 presenti una classificazione delle voci previste secondo i criteri alla base degli obiettivi di sviluppo sostenibile e dell'Agenda 2030, relativamente al bilancio di genere e al bilancio ambientale; si richiede in particolare una valutazione dell'impatto di genere in tutte le fasi (programmazione, attuazione, monitoraggio, valutazione ex post), per orientare le risorse e superare politiche di genere frammentate e occasionali che rappresentano le donne solo come una categoria svantaggiata, quando invece le donne rappresentano più della metà della popolazione.
In questo ambito, il bilancio di genere, riclassificando le spese del bilancio dello Stato, si configura come uno strumento complesso volto, da un lato, ad individuare le risorse stanziate ed erogate in favore delle pari opportunità di genere (dentro e fuori l'amministrazione) e, dall'altro, a verificare l'impatto degli interventi su uomini e donne.
Inoltre nell'agosto del 2021 il Governo Draghi, dando seguito alle indicazioni della « Strategia europea per la parità di genere 2020-2025 », ha approvato la « Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026 », che costituisce una delle linee di impegno del Governo all'interno del PNRR e del cosiddetto « Family Act » (legge 7 aprile 2022, n. 32, recante deleghe al Governo per il sostegno e la valorizzazione della famiglia).
D'altronde, il principio dell'uguaglianza di genere è un valore cardine dell'Unione europea e lo stesso articolo 8 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea stabilisce che essa, nelle sue azioni, mira ad eliminare le ineguaglianze, a promuovere la parità tra uomini e donne e a combattere le discriminazioni nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni. La Presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, nel delineare gli orientamenti politici per il 2019-2024, ha riaffermato l'essenziale principio che il perseguimento della parità di genere debba essere una delle principali priorità della nuova Commissione e dell'attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali. La Strategia europea per la parità di genere dovrà dunque trattare sistematicamente tutte le situazioni in cui le disposizioni legislative influiscono sulle decisioni che le donne prendono nel corso della vita, superare i divari e la discriminazione, sviluppare il loro pieno potenziale.
Un impulso al contenimento di tali divari potrebbe derivare dall'introduzione dell'obbligo della redazione del bilancio di genere da parte delle amministrazioni pubbliche, inclusi gli enti territoriali, quale premessa di una più incisiva applicazione della valutazione di impatto delle politiche pubbliche sotto il profilo del genere. Anche a livello dell'Unione europea, come riaffermato nella risoluzione del Parlamento europeo, del 15 gennaio 2019, sull'integrazione della dimensione di genere al Parlamento europeo, il bilancio di genere – che si concretizza nella pianificazione e nella programmazione – è un elemento essenziale per il rafforzamento dell'uguaglianza di genere e la realizzazione dei diritti della donna; le valutazioni d'impatto di genere sono infatti necessarie per identificare le probabilità che qualsiasi decisione abbia ripercussioni negative sulla parità di genere, cosicché è altrettanto necessario analizzare i bilanci da una prospettiva di genere, in modo da fornire informazioni sui diversi effetti che qualsiasi stanziamento e ripartizione di bilancio possono produrre in termini di parità, oltre che per accrescere la trasparenza e la responsabilità.
Nell'esperienza italiana, il bilancio di genere è stato introdotto per la prima volta nel 2009, con il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150. Tuttavia, sulla base di quanto richiesto dal citato provvedimento, il contributo fornito dai bilanci di genere, che le singole amministrazioni erano tenute a includere tra i contenuti della relazione sulla performance da presentare entro il 30 giugno di ogni anno, è risultato limitato e al di sotto delle attese in termini di analisi e di ricadute sul divario di genere. A questo si aggiunge il quadro delle esperienze locali, che ha prodotto documenti importanti anche dal punto di vista metodologico, ma che hanno rappresentato esperienze frammentarie e discontinue sul territorio.
Nel mese di giugno 2016, in attuazione di quanto previsto dalla riforma della struttura del bilancio dello Stato, è stata avviata una nuova fase della sperimentazione sul bilancio di genere, con l'obiettivo di migliorare i risultati raggiunti.
Il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 16 giugno 2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 173 del 26 luglio 2017, e la relativa circolare di attuazione (n. 25 del 5 luglio 2017) rappresentano il passo iniziale verso la sistematizzazione della valutazione delle politiche pubbliche con un impatto sul divario di genere. Il 2019 è dunque stato il quarto anno della sperimentazione. Tuttavia l'iniziativa, pur migliorando il quadro normativo vigente, presenta alcuni limiti da affrontare e superare.
In primo luogo, l'iniziativa si limita a coinvolgere nella riclassificazione contabile della spesa in bilancio soltanto i centri di responsabilità delle amministrazioni centrali e della Presidenza del Consiglio dei ministri. Ai fini di una visione unitaria e completa sulle politiche adottate per la riduzione del divario di genere, del controllo a posteriori delle medesime e della formulazione di linee di indirizzo sulle politiche future, sarebbe auspicabile un'estensione della sperimentazione a tutte le amministrazioni pubbliche, incluse quelle locali, che realizzano una parte consistente delle spese dirette a incidere sul divario di genere, nonché agli enti e alle istituzioni che materialmente attuano le politiche pubbliche.
In secondo luogo, la scelta degli indicatori statistici, necessari al monitoraggio del diverso impatto di genere delle spese, appaiono scollegati ed indipendenti dagli indicatori di benessere equo e sostenibile (BES) sviluppati dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) fin dal 2013 e che sono stati inseriti nell'ambito del documento di economia e finanza (DEF). Anche in questo caso, come evidenziato nel corso della XVII legislatura, nel parere espresso dalla Commissione bilancio del Senato, del settembre 2017, sull'atto del Governo n. 428 (recante lo schema di decreto ministeriale relativo all'individuazione degli indicatori di benessere equo e sostenibile), sarebbe stato opportuno coordinare meglio la sperimentazione sul bilancio di genere con le altre iniziative in corso relative all'uguaglianza di genere, ed in particolare con riferimento all'applicazione degli indicatori BES e all'attuazione dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Il testo qui proposto riproduce il progetto di legge depositato alla Camera dei deputati (atto Camera n. 3568 – D'Elia e altri) e, a grandi linee, il disegno di legge dalla senatrice Fedeli (atto Senato n. 1539) presentati nella precedente legislatura che a loro volta riprendono un testo della XVII legislatura a prima firma della senatrice Zanoni (atto Senato n. 2915). Al fine di rafforzare il quadro normativo vigente in tema di bilancio di genere, esso si pone l'obiettivo di introdurre nel nostro ordinamento, dopo una prima fase sperimentale, l'obbligo, per le regioni, le province, le città metropolitane, le unioni di comuni e i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, di redigere il bilancio di genere al fine di consentire la valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sulle donne e sugli uomini in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito e incentivare l'adozione di misure da parte dei suddetti enti territoriali per il riequilibrio di genere degli interventi e delle politiche pubbliche.
La fase sperimentale del bilancio di genere si sviluppa su un arco temporale di tre anni e agli enti territoriali che aderiscono alla sperimentazione sono riconosciute specifiche agevolazioni.
Al termine della fase sperimentale, la redazione del bilancio di genere diventa obbligatoria per tutte le regioni e gli enti locali, con esclusione dei comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, per i quali rimane un'opzione facoltativa.
La redazione del bilancio di genere coinvolge tutte le fasi del ciclo di bilancio dei citati enti territoriali, a partire dal Documento unico di programmazione che si compone di una Sezione strategica, della durata pari a quelle del mandato amministrativo, di una Sezione operativa di durata pari a quella del bilancio di previsione finanziario e dalla Sezione operativa dedicata al bilancio di genere, per passare poi al bilancio di previsione finanziario, che comprende le previsioni annuali di competenza e di cassa relative alle spese di genere, per finire con il rendiconto che deve contenere i risultati della gestione anche dal punto di vista delle spese di genere.
Gli schemi contabili e le modalità di rappresentazione del bilancio di genere da parte di ciascuno dei citati enti territoriali sono stabiliti dal Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tramite apposite linee guida che specificano, nell'ambito del bilancio di ciascun ente, le categorie di riclassificazione e le unità di analisi a cui applicarle. La metodologia generale per la redazione del bilancio di genere si basa su una riclassificazione contabile delle spese del bilancio di ciascun ente territoriale in spese neutrali rispetto al genere, spese sensibili rispetto al genere (ossia che hanno un diverso impatto su donne e uomini) e spese destinate a ridurre le diseguaglianze di genere.
I dati rilevati secondo tale metodologia sono elaborati dagli enti territoriali, ai fini della redazione del bilancio di genere, secondo i criteri stabiliti dalle linee guida.

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Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere - Legislatura 19ª - Disegno di legge n. 93 - COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 13 OTTOBRE 2022

Nel corso della XVIII legislatura, con deliberazione del Senato del 16 ottobre 2018, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 249 del 25 ottobre 2018, è stata istituita una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere.
La Commissione ha svolto un'intensa attività di audizioni e di inchiesta al fine di far emergere il fenomeno in tutti i suoi aspetti, a seguito delle quali ha approvato 13 Relazioni, in particolare: la Relazione sulle misure per rispondere alle problematiche delle donne vittime di violenza dei centri antiviolenza, delle case rifugio e degli sportelli antiviolenza e antitratta nella situazione di emergenza epidemiologica da COVID-19 (Doc. XXII-bis, n. 1), la Relazione sui dati riguardanti la violenza di genere e domestica nel periodo di applicazione delle misure di contenimento per l'emergenza da COVID-19 (Doc. XXII-bis, n. 2), la Relazione sulla Governance dei servizi antiviolenza e sul finanziamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio (Doc. XXII-bis, n. 3), la Relazione relativa al rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria (Doc. XXII-bis, n. 4), la Relazione sul contrasto alla violenza di genere: una prospettiva comparata (Doc. XXII-bis, n. 5), la Relazione sulle mutilazioni genitali femminili (Doc. XXII-bis, n. 6), la Relazione « La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018 » (Doc. XXII-bis, n. 7), la Relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere (Doc. XXII-bis, n. 8) e la Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l'affidamento e la responsabilità genitoriale (Doc. XXII-bis, n. 10).
Un lavoro approfondito e articolato dunque che ha analizzato trasversalmente tutti i diversi piani che interessano il fenomeno della violenza con il contributo proficuo di tutti i commissari, delle tante associazioni che si occupano di violenza e dei centri antiviolenza, dei consulenti dei tribunali e degli uffici giudiziari. La Commissione, inoltre, sia per la sua stessa istituzione, sia per l'attenzione e l'ascolto dimostrati nel corso della propria attività, ha fatto sì che tante donne, vittime di violenza, spesso alle prese con procedimenti civili o penali lunghi e faticosi, si siano rivolte alla Commissione stessa per chiedere verifiche e indicazioni o, comunque, per sentire le istituzioni al loro fianco.
A quanto detto si aggiunga che, con le diverse Relazioni che la Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere ha approvato quasi sempre all'unanimità, è stato consegnato al Paese un patrimonio di dati e conoscenze del fenomeno su cui costruire politiche ancora più efficaci per contrastare la violenza. In particolare, il documento conclusivo, recante la relazione finale sull'attività della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio (Doc. XXII-bis, n.15), approvato all'unanimità dalla Commissione il 6 settembre 2022, chiarisce il filo conduttore perseguito nelle singole inchieste, ricostruisce il disegno complessivo delle politiche necessarie a prevenire e contrastare la violenza di genere e contiene nel capitolo « Indirizzi e Policies » preziose e concrete indicazioni di lavoro per il Parlamento e per il Governo. Indicazioni su cui hanno concordato i commissari di tutte le forze politiche e che possono essere considerate un patrimonio condiviso di saperi in base al quale proseguire il lavoro, dentro e fuori dal Parlamento. Più nel dettaglio, dal lavoro svolto è emersa l'importanza di rafforzare la rete per sostenere le donne, le bambine e i bambini in uscita dalla violenza con le associazioni e i centri antiviolenza. Analogamente, è emersa tra le priorità di intervento la necessaria formazione e specializzazione di tutto il personale che interviene con donne e minori vittime di violenza, a partire da tutti gli operatori della giustizia.
Il contrasto al fenomeno della violenza, infatti, passa anzitutto per una battaglia culturale, attraverso il superamento degli stereotipi e i pregiudizi contro le donne che troppo spesso albergano anche in chi si occupa di violenza, nei tribunali e non solo. Analogamente, è emersa la necessità di intervenire sugli uomini maltrattanti con percorsi psicologici di recupero obbligatori, la cui efficacia sui singoli individui venga verificata, per evitare il rischio di recidive e contribuire a determinare un cambiamento culturale.
Negli ultimi anni dai casi riportati dalle cronache è, inoltre, emerso un elemento di particolare allarme. In sempre più casi, per evitare il femminicidio non basta la denuncia che le donne fanno con coraggio e spesso non bastano neppure le misure adottate, come l'allontanamento, e in alcuni casi non è sufficiente neanche la condanna per stalking. Circostanze che, a fronte di un quadro normativo robusto, di cui negli anni si è dotata l'Italia, indicano un « vulnus » che riguarda l'applicazione rapida e tempestiva delle misure di protezione. Un vulnus che, inoltre, finisce con l'operare come fattore deterrente per le altre donne, spingendole a non denunciare.
Occorre, infine, evidenziare come già anche nel corso della XVII legislatura, con la deliberazione del Senato del 18 gennaio 2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 20 del 25 gennaio 2017, era stata istituita una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere.
Con il presente disegno di legge si intende, invece, richiedere l'istituzione di una Commissione d'inchiesta bicamerale quale segno di attenzione del Parlamento tutto rispetto ad un fenomeno la cui portata continua a destare un particolare allarme sociale e che quindi merita una centralità e un lavoro organico da parte di tutte le forze parlamentari.

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