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Dettagli: | Pubblicato: 27 Gennaio 2023

Legislatura 19ª - Disegno di legge n. 507 - Nicola Irto cofirmatario

I campi di prigionia, internamento e concentramento vennero utilizzati in Italia già nelle guerre ottocentesche, ma il ricorso a essi divenne sistematico con le due guerre mondiali, al fine di detenere i soldati nemici e le categorie di persone ritenute pericolose per la sicurezza nazionale. Nel corso del secondo conflitto mondiale, vennero spesso utilizzate località e strutture preesistenti sia sul territorio nazionale sia nei territori occupati. Questi vennero prevalentemente collocati in edifici abbandonati o inutilizzati (castelli, ville, fabbriche, scuole eccetera), lontani dai centri abitati e dalle vie di comunicazione e dunque per lo più in pessime condizioni. I loro « ospiti », concentrati in località dal clima rigido e insalubre, erano costretti a subire difficilissime condizioni di prigionia, fatte di malnutrizione, ritmi lavorativi disumani, sovraffollamento, totale mancanza di igiene, continue vessazioni fisiche e psicologiche. In particolare, con l'instaurazione del regime fascista l'utilizzo di tali campi acquisì, nel corso del tempo, un ruolo centrale nel controllo degli oppositori politici.
La storia concentrazionaria fascista può essere sostanzialmente suddivisa in tre periodi: quello precedente al conflitto mondiale, quello della prima fase bellica (1940-1943) e quello successivo all'armistizio e all'occupazione nazifascista della penisola (1943-1945). L'allontanamento fisico dalla società degli avversari politici era, con il confino, una prassi consolidata per il regime, ma con lo scoppio della guerra esso venne riformulato attraverso la disposizione dell'internamento civile, concepito come un vero e proprio strumento amministrativo di prevenzione. La sua applicazione, centrata sostanzialmente sull'attività degli organi di polizia e facilitata dalla genericità delle norme, relative ad ambiti di fattispecie molto vasti, dall'emarginazione sociale agli atti sovversivi, lo rendevano uno strumento estremamente valido per intimidire e minacciare coloro che non si allineavano alla costruzione dello Stato totalitario. L'intera organizzazione concentrazionaria, pertanto, venne strutturata e sviluppata a partire dall'istituto del confino di polizia e sulla base della sua modalità di pianificazione. Seppure relativo ad un diverso contesto storico e caratterizzato da una regolamentazione differente, la misura del confino rappresentò, infatti, un precedente importante e fondamentale dal quale partire nella costruzione del sistema dell'internamento. Tale pratica venne infine regolamentata da una legislazione afferente sia alle leggi di guerra sia a quelle di pubblica sicurezza (i decreti cui si fa riferimento sono i seguenti: 8 luglio 1938, n. 1415, 10 giugno 1940, n. 566, 18 giugno 1931, n. 773, e 17 settembre 1940, n. 1374) che intendeva l'internamento come una misura volta a contenere e a isolare i civili italiani e stranieri ritenuti pericolosi soprattutto nelle contingenze belliche. Si trattò, quindi, di uno strumento fondamentale all'interno del sistema repressivo fascista, funzionale a favorire la politica di espansione territoriale del regime.
Venne creato l'« Ufficio internati » diviso in due sezioni, una per gli italiani e l'altra per gli stranieri e per coloro che erano colpevoli o sospettati di attività spionistica. I relativi elenchi erano conservati presso il Casellario politico centrale e sulla base di questi si procedeva agli arresti. Le categorie degli italiani da colpire erano già state individuate dalle prefetture fin dal 1929, articolate in: le « persone pericolosissime »; « pericolose perché capaci di turbare il tranquillo svolgimento di cerimonie » e « di turbamento dell'ordine pubblico »; gli « squilibrati mentali »; i « pregiudicati pericolosi per delitti comuni ». Ricalcando il metodo utilizzato per il confino, l'internato, proprio in base al suo grado di pericolosità, veniva inviato in uno dei numerosi « comuni d'internamento » o in uno dei 48 campi di concentramento. Nonostante la legislazione internazionale limitasse l'applicazione di misure di internamento ai soli riguardi dei sudditi nemici e di coloro che potevano compiere atti di sabotaggio o di spionaggio contro la Nazione in guerra, il fascismo le utilizzò, impropriamente, anche a carico degli oppositori politici, spesso preferendole al confino perché dalla procedura più rapida.
L'utilizzo dell'internamento ebbe un ruolo non secondario nella politica antisemita condotta dal regime. Il 15 giugno 1940 venne assunta da Mussolini la decisione di internare gli « ebrei stranieri appartenenti a Stati che fanno politica razziale »: si fece sì che tutti gli ebrei stranieri presenti nel territorio italiano potessero indiscriminatamente essere arrestati. L'elemento « razza », quindi, era prevalente rispetto al supposto pericolo che gli ebrei potevano rappresentare per l'ordine pubblico e l'internamento diventava di fatto un altro strumento di discriminazione antisemita.
Con la costituzione della Repubblica sociale italiana attraverso la ricostituzione del partito fascista nell'Italia settentrionale continuò, anzi venne rafforzata, l'applicazione delle misure di internamento: con l'ordine di polizia 30 novembre 1943, n. 5, in cui si decise l'allestimento dei campi di concentramento provinciali per gli ebrei, si passò alla fase più estrema del sistema di repressione e di segregazione politica e razziale del fascismo, in seguito alla quale ebbe inizio la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio nazisti. Tragici simboli di questo drammatico percorso sono i campi cosiddetti « di transito » di Fossoli di Carpi, Bolzano Gries, Borgo San Dalmazzo e la Risiera di San Sabba a Trieste.
L'Italia, superata la primavera-estate del 1945, dovette affrontare una impegnativa ricostruzione, allo stesso tempo materiale, valoriale e identitaria. Prevalse una sorta di rimozione nella dimensione del dibattito pubblico delle leggi razziali, dei crimini perpetrati durante le imprese coloniali italiane in Africa e nel settore balcanico, dei campi di concentramento e della fattiva collaborazione italiana nella spoliazione, persecuzione e deportazione degli ebrei.
La vicenda dei campi venne rimossa simbolicamente, e in alcuni casi, fisicamente, dalla memoria collettiva, con l'effetto di creare uno dei più emblematici e persistenti vuoti di memoria del dopoguerra, che, oltre alle vicende dei campi per ebrei, avvolse anche quelle dei campi coloniali.
Le riflessioni della comunità scientifica sul tema dei campi di concentramento fascisti hanno cominciato a toccare l'opinione pubblica e ad inserirsi in circuiti comunicativi diversi da quelli accademici o specialistici solo in tempi recenti. La creazione di una delle banche dati on line più complete sull'esperienza dei campi di concentramento risale al 2012. Si tratta del progetto « I campi fascisti. Dalle guerre in Africa alla Repubblica di Salò », concepito come « centro di documentazione on line sull'internamento e la prigionia come pratiche di repressione messe in atto dallo Stato italiano nel periodo che va dalla presa del potere da parte di Benito Mussolini (1922) fino alla fine della seconda guerra mondiale (1945) ». Una documentazione che ha scelto programmaticamente di partire non dagli avvenimenti storici in sé, bensì dai luoghi: per luoghi di internamento e prigionia sono state intese, infatti, « le località di confino, le carceri, i campi di concentramento, i comuni di internamento e quanto altro possa emergere dalla ricerca storica come contesto in cui siano state messe in atto queste pratiche repressive rivolte verso oppositori politici, specifiche categorie sociali, gruppi religiosi, civili e militari di Stati stranieri coinvolti in guerre od occupazioni militari ». Sulla base del medesimo progetto di ricerca, patrocinato, tra gli altri partners, anche da « Fondazione Museo della Shoah », « Europe for Citizens Programme », « Archivio Centrale dello Stato », e dalla regione Toscana, si può parlare – per il periodo pre-bellico e bellico (dati provvisori) – di 135 campi di concentramento, circa 85 campi e distaccamenti di lavoro, 109 campi di prigionia, 15 campi provinciali della Repubblica sociale italiana, a cui vanno aggiunte 85 carceri, 566 località d'internamento, 34 località di confino e 8 località di soggiorno obbligato.
È nostro dovere trasmettere alle nuove generazioni l'esperienza e la memoria di quanto accaduto, in modo che non vada dispersa la consapevolezza del tempo che viviamo. In questo quadro, i luoghi della memoria costituiscono il collante della nostra identità costituzionale e repubblicana. La dolorosa esistenza di così tanti luoghi è una tragica testimonianza della complessità della storia di quel periodo, della guerra, dei regimi totalitari che furono causa di incancellabili sofferenze: violenza su civili, deportazioni, negazioni dei diritti fondamentali dell'uomo e la difficile eredità del dopoguerra.
Abbiamo più che mai bisogno che venga recuperato il filo della storia, in questo tempo così complesso, così convulso, dove accade anche che si confondano i torti e le ragioni. Noi abbiamo bisogno di sapere, per non smarrire mai la consapevolezza di dove sono stati i torti e dove sono state le ragioni. Abbiamo bisogno di sapere da quale lotta gigantesca e a quale costo sovrumano sono nate la democrazia e la libertà che oggi abbiamo e che ci paiono scontate, facili, anche superficiali, ma che non lo sono. Per questo motivo lo studio della storia, la necessità di capire il Novecento, la necessità nelle nostre scuole di una didattica della memoria e di una didattica della Shoah, del regime fascista in Italia e nelle sue colonie, riguardano così da vicino la costruzione, sin dalle aule scolastiche, di una coscienza civile che sia condivisa e duratura, in cui tutti devono riconoscersi, nonché la formazione di cittadini consapevoli, che si sentano parte di uno stesso destino.
Storia e memoria stanno insieme. Senza storia e senza memoria non c'è identità e per una Nazione, per una società, per una collettività non ci può essere futuro. Senza storia, senza memoria e senza identità c'è il vuoto delle coscienze che genera indifferenza, pregiudizio e discriminazione. La scuola, la ricerca, la conoscenza possono essere gli antidoti.
Questo è il senso di questo disegno di legge e della battaglia per la scuola pubblica ed inclusiva, strumento potente di riscatto e di emancipazione perché ha il dovere di creare un legame tra le generazioni di ieri, di oggi e di domani. Un legame di valori universali, quelli della democrazia, del rispetto reciproco, dei diritti che mai devono essere calpestati.
Per quanto premesso, per il valore storico, per l'importanza che assume la memoria, con particolare riguardo all'eredità verso le future generazioni, l'articolo 1 del presente disegno di legge prevede la realizzazione di ricerche storiche, documentali e archivistiche, di manifestazioni, convegni, mostre, pubblicazioni e percorsi di visita mediante la Struttura di Missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L'articolo 2 promuove, mediante il Ministero dell'istruzione e del merito, nel rispetto dell'autonomia scolastica, i « viaggi nella storia e nella Memoria » presso i campi di prigionia, internamento e concentramento in Italia, con particolare riferimento a quelli installati durante il periodo fascista compreso tra il 1922 e il 1945, rivolti a studentesse e studenti delle scuole di ogni ordine e grado.
L'articolo 3, infine, stabilisce gli oneri finanziari in misura di 3 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023, 2024 e 2025.

Allegati:
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